La mente scolapasta

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La mente scolapasta

POPMed
Pubblicato da Raffaele Avico in Psicoterapia · Venerdì 17 Ott 2025
Tags: PsicoterapiaSocialmediaRecensioniAttenzione
Mettiamo insieme un po’ di materiale, qui si seguito, a proposito dei rischi dell’uso compulsivo, eccessivo, di device e social media, partendo da queste riflessioni su Medusa, di Matteo de Giuli. In particolare troviamo un estratto dal libro di Valerio Rosso PSIQ a proposito di quello che chiama Disturbo da diffusione patologica dell’attenzione, quindi un approfondimento sul tema dell’overload cognitivo (responsabile del senso di stanchezza cronica che molti lamentano), infine una recensione del volume di Jonathan Haidt La generazione ansiosa, più attuale che mai.
La sensazione è quella di essere depauperati di energia cognitiva senza capirne a fondo i motivi. Come se la mente, da titolo, fosse uno scolapasta che perde energia e risorse, impiegate in attività per lo più inutili - il che ci riporta alla domanda centrale: che fare?

Disturbo da Diffusione Patologica dell’Attenzione
(da PSIQ di Valerio Rosso)

Negli ultimi anni diversi autori stanno provando ad ipotizzare le conseguenze che le caratteristiche della nostra società contemporanea, basata sul digital, sulla costante richiesta di aumento delle performance cognitive e sull'accelerazione del nostro stile di vita, potranno avere sulla mente degli esseri umani. Quando si parla del Disturbo da Diffusione Patologica dell’Attenzione, definito anche come DDPA, ci si riferisce ad una nuova potenziale entità psicopatologica caratterizzata da un eccessivo ingaggio dell’attenzione in plurime attività che sequestrano il potenziale cognitivo della mente. Questo sequestro del nostro potenziale cognitivo può produrre diversi sintomi quali:
- superficialità decisionale
- disturbi della memoria
- alterazioni affettive
- diminuzione delle competenze relazionali
- alterazioni del ritmo sonno veglia

Le ipotesi  teoriche che hanno portato alla definizione di questo possibile nuovo disturbo della nostra mente vanno attribuite a due principali autori: Adam Gazzaley, un neuroscienziato americano autore del libro "The Distracted Mind", e a Yuval Noah Harari, il famoso storico e saggista israeliano autore del famosissimo "Homus Deus". Oltre all'attuale stile di vita iper-accelerato e che richiede performance intellettive sempre maggiori, l'attuale diffusione degli smartphone, del web e dei social media sembra aver dato il "colpo di grazia" al nostro capitale attentivo: l'incapacità crescente a focalizzare e a mantenere la nostra attenzione in un determinato task rappresenta, evidentemente, un danno generale al nostro potenziale cognitivo.

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Bene, adesso vi spiegherò come gli Smartphone, i Social Network ed il Gioco d’Azzardo ci rubano il Tempo, l’Attenzione e diminuiscono la nostra Versatilità, allo stesso modo di come accade quando usiamo in maniera problematica una sostanza d’abuso come l’eroina o l’alcol. Il Tempo a nostra disposizione e la capacità di direziona e mantenere l’Attenzione su attività produttive, che ci appassionano e che ci fanno crescere, è il vero punto cardine della nostra Vita. Leggendo psiq penso che abbiate capito che esistono disturbi mentali particolarmente subdoli ed invalidanti che vanno a compromettere proprio la nostra attenzione (oltre ad altre funzioni) come l’ADHD e anche, in parte, il Disturbo Bipolare. In realtà negli ultimi anni, con la diffusione di massa degli smartphone e dei social media, si sta facendo strada una condizione patologica della nostra mente che, in realtà, non ha ancora un nome su cui gli scienziati concordano, ma che io ho chiamato “Disturbo da Diffusione Patologica dell’Attenzione” (“DDPA”) (380). In quest’era digitale siamo tutti a rischio di sviluppare un “Disturbo da Diffusione Patologica dell’Attenzione” (“DDPA”) perché intorno a noi si stanno sviluppando delle condizioni fortemente favorenti questo problema. Infatti siamo tutti oggetto di Campagne di Marketing che cercano di attirare la nostra attenzione (nel Mondo Reale, sul web e sui Social Media) ed inoltre la crisi economica, le Guerre, i Cambiamenti Climatici e la perdita di spiritualità e di valori solidi stanno portando l’umanità ad una sorta di Depressione Esistenziale che necessita di essere lenita. Che cosa sta accadendo, quindi, nel nostro attuale Mondo, che si sta anche caratterizzando per una velocità eccessiva, richieste di performance elevatissime e dalla presenza del digital che è una fonte enorme di connessione, di contenuti accattivanti e di opportunità sensoriali?

Le conseguenze di tutto ciò sono state una moltiplicazione dei cosiddetti attrattori di attenzione che assorbono e diffondono la nostra attenzione con conseguenze non ancora completamente chiare sul piano psicopatologico. Il concetto di diffusione patologica dell’attenzione, che poi, in termini pratici, si traduce in un sequestro del nostro limitato capitale attentivo, è un fenomeno noto da diverse decine di anni, in sostanza da quando l’Umanità ha iniziato ad utilizzare mezzi e media che hanno potenziato e facilitato la comunicazione, negli anni ’60 e ’70. “Superficialità”, purtroppo è questa una delle conseguenza di una diffusione costante della nostra attenzione, sequestrata da mille attrattori digitali, reali ed intrapsichici, che a fatica ce la restituiscono. Andando avanti in questo ragionamento possiamo affermare che la diffusione patologica della nostra attenzione nel mondo digitale ed in quello reale iper- accelerato, favoriscono la costante presenza di ansia e rimuginazione.

Perché tutto questo? L’ansia e la rimuginazione, intese in senso “classico”, erano sostenute da processi psicopatologici di tipo implosivo, ovvero che spesso affondavano le loro radici in una sorta di deflessione dell’osservazione verso il nostro interno a scapito della realtà esterna; spesso rappresentano dei veri e propri bias interpretativi dei dati in nostro possesso. Ansia e rimuginazione sono emersi e si sono diffusi tra le persone come entità psicopatologiche nel corso di tutto il ‘900. Allo stato attuale ansia e rimuginazione sono ancora molto presenti tra le persone nel mondo occidentale iper- accelerato e digitalizzato, ma non più come entità patologiche ma come segni e sintomi del Disturbo da Diffusione Patologica dell’Attenzione. Inoltre queste forme di ansia e di rimuginazione assumono una valenza esplosiva, ovvero diretta completamente verso l’esterno (381). Nel momento in cui il nostro capitale di attenzione è completamente depauperato la nostra mente subisce una sorta di Effetto “colapasta”, ovvero la dispersione dell’attenzione rende la nostra mente simile ad un “colapasta” che non trattiene le informazioni per il tempo sufficiente alla loro elaborazione e questo ci impedisce di soffermarci sulle memorie e sui dati sensoriali, generando sensazioni di incertezza, allarme e disagio scarsamente definibili (382). Quali potrebbero essere, quindi, le conseguenze cliniche ed esistenziali del DDPA?

Di seguito riporto una tabella riassuntiva dei più probabili sintomi e segni che potrebbero caratterizzare un disturbo costante della capacità di portare attenzione secondaria ad una costante diffusione (leggi “depauperizzazione”) dell’attenzione stessa:
- Ansia e Rimuginazione.
- Attacchi di Panico.
- Disturbi da desiderio sessuale, anorgasmia.
- Difficoltàrelazionali.
- Difficoltà di apprendere nuovi task.
- Anedonia e Alessitimia.

Per poter provare sentimenti autentici, vivere le nostre passioni e scrivere il nostro futuro abbiamo bisogno di riuscire a soffermarci sulle cose, di focalizzare i nostri pensieri e le nostre azioni, in poche parole abbiamo bisogno di poter disporre della nostra attenzione. Se questa qualità della nostra cognizione ci viene sottratta, proprio perché diluita e diffusa in plurime direzioni, rischiamo di perdere il motivo per cui la vita vale la pena di essere vissuta: la nostra possibilità di autodeterminarci e di essere liberi.

[…]

OVERLOAD COGNITIVO E COSTI
Più volte su POPmed abbiamo scritto dei rischi connessi all’uso eccessivo di device tecnologici, all’iper-carico cognitivo connesso a un eccesso di dati, alla “bugia” del multitasking. Quali sono le conseguenze sulla nostra salute mentale dell’iper-esposizione ai dati, le conseguenze di quello che viene chiamato overload, o sovraccarico cognitivo?

Prima di tutto occorre definire lo span attenzionale e chiarire come la guerra quotidiana per la nostra attenzione su internet ci tocchi molto da vicino. In psicologia generale lo span attenzionale è definito come l’estensione dell’attenzione selettiva, sia in senso di tempo (per quanto riesco a prestare attenzione a un determinato stimolo) che in termini di spazio (quanto ricordo di ciò che ho visto? Quanti elementi riesco a ricordare di una determinata serie?). La capacità di prestare attenzione in modo selettivo, inoltre, è garanzia di apprendimento. Focalizzare l’attenzione ci proietta in uno stato mentale particolarmente consono a immagazzinare informazioni: una dimensione mentale alternativa, differente, che ci consente di vivere a pieno l’esperienza dell’immagazzinamento delle informazioni che ci aggradano. Alcuni studi hanno indagato uno stato mentale particolare che viene chiamato “learning state”, ovvero una condizione di particolare immersività dentro l’esperienza che ci permette di apprendere con più facilità e potenza da ciò che stiamo vivendo. A tutti è capitato di trovarsi così immersi dentro un racconto che si sta leggendo, da sperimentare un lieve distacco dalla realtà e un’immersione profonda nella lettura. Questo stato di immersività ci consente di immagazzinare con più forza le informazioni che ci arrivano, dato che l’apprendimento di svolge in modo più coinvolto ed “emozionato”. La dimensione emotiva dell’apprendimento è cosa risaputa: l’apprendimento supportato da uno stato emotivo peculiare (per esempio rimanere particolarmente colpiti da una poesia, o da una canzone, la dimensione “interpersonale” dell’apprendimento-pensiamo al concetto di “filtro affettivo” di Krashen), rende più profondi i solchi tracciati nella nostra memoria dall’esperienza.

Senza addentrarci nella questione di come il mercato dell’attenzione riesca a distrarci così compulsivamente da ciò che stiamo facendo, osserviamo intorno a noi come lo span attenzionale della normale cittadinanza (è molto generica come definizione ma sufficientemente onnicomprensiva) sia minacciato da una tensione verso il “ritorno” al device tecnologico in grado di rompere lo stato di attenzione focalizzata -riportando il soggetto alla realtà del “digital”- staccandolo bruscamente da ciò che, al di fuori dello schermo, stia facendo e “immagazzinando” in termini di apprendimento.

Nel processo di apprendimento e di immersione, spezzare l’attenzione (con un controllo compulsivo del device tecnologico, per esempio) concorre a rendere più complicato il processo immersivo tenendoci sempre “in superficie”, come un ritorno costante a una realtà “altra” che ci distrae dal compito primario (per esempio la lettura approfondita). In questo senso parliamo di attenzione selettiva intermittente: i Social Media e in generale Internet, come molti lamentano, possiedono armi sufficientemente potenti da forzarci a un “ritorno” al device (per esempio lo smartphone) interrompendo di fatto il nostro compito cognitivo principale. Si potrà obiettare che la decisione di interrompere un qualche gesto per tornare a controllare lo smartphone, dipende dalla volontà del singolo. Verissimo nel momento in cui sopravvalutiamo le competenze attentive umane, di fatto labili. Quello che qui si vuole argomentare, è che l’essere umano non è sufficientemente forte da resistere a un invito così promettente come quello offerto dal Social, o dal digitale in sè. La promessa infatti di un appagamento relazionale, e il ricordo “neurobiologico” connesso a pregresse scariche di dopamina, si pongono a tampone di un bisogno che è gerarchicamente superiore e più basico rispetto a molti altri bisogni, più “laterali” ma altettanto importanti, come appunto l’apprendimento, la contaminazione, l’eplorazione mentale: si genera un conflitto che spesso ci vede perdenti, arresi alla compulsione del “checking”. Mettere in mano uno smartphone a individui nevrotici adulti, affamati di contatto umano e relazioni, è dare da bere agli assetati: la voglia, l’impulso, rischiano di avere la meglio.

I COSTI DELL’OVERLOAD
La guerra dell’attenzione ci pressa da ogni dove, ogni singola volta che sblocchiamo il nostro telefono; e non saremo sufficientemente forti da resisterle, come sopra argomentato (i bisogni di appartenenza e seduzione, insieme alla componente dopaminergica, si pongono come primari, diventando nel tempo gratificatori unici, in grado di prevalere sugli altri). Il risultato è che la nostra mente è costantemente impegnata in una lotta contro le distrazioni, in un costante slalom tra input al fine di tenere il focus su un determinato argomento. Pensiamo alle interruzioni continue degli spot su Youtube, ai banner pubblicitari, al neuro-bombardamento di input pensati per noi su Social di diverso genere; un costante rumore di fondo, un vero e proprio inquinamento cognitivo a cui siamo sottoposti in modo pressoché costante.

Ma con quali costi?
Questo stato di sovraccarico viene chiamato overload cognitivo in riferimento alla fatica indotta da tre processi principali:

- il lavoro implicito di scrematura e differenziazione tra stimoli che costantemente facciamo per poter mantenere il focus. Il cervello, come sappiamo, è già di suo un filtro in grado di portare alla nostra attenzione pochi stimoli alla volta per ragioni di adattamento; bombardarlo in modo continuo di stimoli ridondanti e chiassosi, rende il lavoro di filtraggio ancora più faticoso e frustrante.

- la fatica della scelta continua, dell’eccesso di stimoli tra cui scegliere, rappresenta un problema per ora sotto-soglia, non ancora pienamente indagato (o almeno, non in relazione a Internet: ne parla bene Just Mick in questo video); ne scrive anche Pietro Minto in questo libro che abbiamo recensito di recente citando il concetto di FOMO (fear of better options), il timore relativo al fatto di aver fatto la scelta migliore in un mondo di possibilità di consumo pressoché infinite

- tradire costantemente la nostra attenzione con altro (come durante la lettura, l’impugnare e sbloccare il telefono) ci condanna al continuo bisogno di ri-focalizzarci su ciò che stavamo facendo “prima” di distrarci; questo è di per sé uno sforzo cognitivo, un task mentale. Il tema qui è complesso poichè esistono aspetti emotivi implicati nel fenomeno, dato che siamo meno portati a distrarci tanto più il compito è per noi stimolante. Il problema è che, in questo senso, solamente i compiti per noi massimamente edificanti in termini emotivi saranno in grado di coinvolgerci al punto da impedirci movimenti di distrazione: il risultato è che tutto ciò che non è per noi “centrale” rischia di disperdersi, con meno possibilità da parte nostra di essere contaminati da qualcosa di altro. Se mettiamo questo fenomeno insieme a quello delle bolle informative create dagli algoritmi, capiamo facilmente come tutti noi si rischi di “radicalizzarci” sempre di più su isole di contenuto “nostre”, senza associazioni libere, contaminazioni e scoperta di “altro”. É come sottoporsi a una Cura ludovico con i nostri stessi contenuti, tutto il giorno, auto-bombandardoci il cervello con contenuti in grado di “fittare” benissimo con ciò che già sappiamo, radicalizzandoci appunto.

Esistono degli studi che hanno indagato questi aspetti?
Alla voce “sovraccarico cognitivo” troviamo su Wikipedia inglese alcuni spunti interessanti:

- il concetto ha radici storiche molto lunghe; in epoca moderna, negli anni ‘70 già ci si interrogava su quali sarebbero state le conseguenze dell’iper-abbondanza di stimoli e le possibili conseguenze sulla salute mentale degli individui. L’ultima formulazione, e più recente, è attribuita a un ricercatore tedesco (Peter Roetzel) che in questo approfondito articolo traccia uno stato dell’arte del problema in termini il più possibile scentifici, da un punto di vista della “psicologia dei consumi” e del business. In questa meta-analisi della letteratura esistente, l’autore identifica i rischi e in particolare 3 modi di concettualizzare il problema dell’overload di informazioni: 1) l’overload come conseguenza di una scarsa attenzione al “design” della progettazione dell’esperienza utente in sè, una sorta di perversione non prevista della creazione di dati in eccesso; 2) l’overload come un virus, con persone non ancora coscienti della portata della “malattia” diffusa da piattaforme sempre più spinte in termini di dati e informazioni prodotte (“Users seem to ignore possible side effects of information overload up to a very high level before retreating from these channels or platforms”) e 3) l’overload come conseguenza di un’assenza di tempo sufficiente ad affrontare la complessità delle informazioni prodotte in rete (qui l’accento è messo appunto sul tema “tempo limitato”). L’articolo raccoglie le strategie di fronteggiamento del problema in 3 categorie (incentrate su 3 soggetti: l’uomo, il processo cognitivo in sè, e la tecnologia): sono raccolte in questa tabella

- la pagina descrive due tipologie di overload di informazioni: da eccesso di fonti, e da eccesso di “profondità” delle stesse; entrambe sapranno produrre -soprattutto in soggetti particolarmente meticolosi o puntigliosi- FOBO (fear of better options) e “not just right experience”, una sensazione insomma di insoddisfazione a fronte di grandi quantità di informazioni tra le quali decidere -sempre estremamente faticosa e frustrante. Uno dei rischi, insomma, è condurre ad analisi-paralisi, a blocchi di performance

- La pagina cita il lavoro di Clay Shirky, che in questo video in tempi non sospetti (2008), ragionava sulla deriva che la dis-intermediazione totale generata dall’iper-connessione avrebbe generato; in effetti, aver scavalcato e resi superflui gli intermediari che facevano da filtro (per esempio i giornali nazionali, le case editrici -oggi ognuno pubblica in autonomia in qualsiasi ambito) ha aumentato in modo spropositato i contenuti in circolazione, da un lato liberando e democraticizzando la cultura (che era il sogno dei nerd-hippie fautori della rivoluzione digitale che oggi viviamo), dall’altro “aprendo le gabbie” e dando voce a chiunque, cosa che osserviamo oggi e di cui cominciamo a percepire il lato oscuro.

Al di là degli aspetti più teorici, l’overload cognitivo resta un problema che ci tocca nel vivo del nostro vivere quotidiano; il proliferare di pratiche mutuate dalla psicologia orientale, i corsi di pratiche zen, la ricerca di “focus” e la letteratura di self-help mirata ad aumentare la produttività, ci dicono di come la cittadinanza percepisca il problema come attuale e urgente. É più che probabile che il futuro prossimo ci riservi una regressione a forma più contenute di accesso alle informazioni che intorno a noi gravitano: forme di minimalismo, decluttering “interiore”, ricerca di contatto con la natura (forest bathing), pratiche di “filtro” che ci consentano una migliore “ecologia” mentale, un ritorno al mono-tasking, maggiore attenzione all’UX (user experience), e altre forme di ribellione a un “data smog” percepito come sempre più tossico in termini psicologici.

Può sembrare banale, ma sarà sempre più centrale -al fine di preservare una buona igiene mentale- lavorare su abilità di costruzione di uno stile di vita adeguato. Per fare alcuni esempi:
- differenziando in modo feroce il tempo impiegato nel lavoro da quello libero, suddividendo i due momenti in modo rigido/verticale, per contrastare un senso di reperibilità continua
- ritagliando momenti di assenza di produttività, di svago puro, o di semplice daydreaming slegato da task lavorativi
- inframezzando gli impegni settimanali con attività fisica
- investendo una parte della propria energia mentale nella costruzione di abitudini sociali positive, “in presenza”
- valutando l’abbandono totale/temporaneo di abitudini nefaste come appunto il checking o lo scrolling compulsivo, auto-monitorando la qualità del tempo che spendiamo in rete
- limitando l’impatto sulla propria psiche di news/social/spazzatura mediatica
- assumendo maggiore consapevolezza sui rischi connessi al “mercato della dopamina

..insomma, occorrerà sempre di più lavorare sul proprio stile di vita.

La generazione ansiosa e i giovani

La generazione ansiosa” viene tradotto e pubblicato recentemente da Rizzoli; è un saggio da un titolo forte, che però merita una lettura approfondita, vista l’attualità dei suoi contenuti, e i dati allarmanti riguardanti la salute mentale dei giovani, da più parti denunciate. Il volume si presenta come una sorta di mega-indagine, una vera e propria inchiesta giornalistica che mette in ordine e sistematizza i più recenti dati a riguardo della salute mentale dei giovani in relazione all’utilizzo di smartphone e social-media, con un focus sul periodo 2010-2015, cornice temporale che ha ospitato diverse innovazioni tecnologiche largamente disruptive, tutte insieme (iphone, app gratuite in cambio di pubblicità, social media, telefoni dotati di telecamere frontali, internet per tutti sempre e ovunque), in grado di avviare un cambio di paradigma a livello di relazioni e comunicazione tra gli individui -per le fasce d’età più giovani coincidente con quello che l’autore chiama, un po’ drammaticamente, la “Grande Riconfigurazione dell’Infanzia”.

Qui ne faremo una recensione approfondita, cercando di cogliere gli aspetti più importanti di quello che l’autore ci vuole passare.
Jonathan Haidt è un professore universitario a NYC, e già in precedenza, con questo libro, aveva indagato la salute mentale giovanile; i suoi studi si posizionano al confine tra la psicologia sociale e la sociologia: ha anche avviato un sito da usare come strumento a latere della lettura, questo: https://www.anxiousgeneration.com

Vediamone alcune parti di “la generazione ansiosa” in dettaglio, procedendo nella lettura:

- Nella prima parte del suo lavoro H. presenta il suo concetto di “Grande Riconfigurazione dell’Infanzia”: la sua idea è che dal 2010 al 2015 qualcosa sia accaduto, e che l’infanzia abbia preso forme nuove, correlate all’introduzione di device tecnologici estremamente additivi, precedente a un preoccupante aumento di disturbi internalizzanti per le femmine in età adolescenziale ed esternalizzanti per i maschi nella stessa età. Il libro è stato scritto nel 2023, è quindi molto attuale: il problema del “malessere psicologico nei giovani” è sulla bocca di tutti.

- Il vero fattore discriminante, secondo Haidt, è rappresentato dalla pervasività di utilizzo dei device, che da un certo tempo in poi (l’Iphone è stato introdotto nel 2007), ha garantito di essere tutti sempre connessi -ancor di più dopo l’introduzione dei social network

- Haidt ragiona sul fatto che se il malessere dei/le ragazz* in età adolescenziale fosse causato da elementi di macro-contesto nel mondo reale (come crisi economiche o guerre) altre epoche avrebbero dovuto essere più tragiche (come il 2009): no, secondo l’autore parliamo di qualcosa successo nella prima metà degli anni ‘10, e non “esterno”/riguardante guerre, epidemie o altro. Anzi, in questi ultimi casi -l’autore sottolinea-, a volte le comunità fanno gruppo e sperimentano paradossali effetti positivi in senso psicologico

- Nel secondo capitolo, Haidt parte da alcune considerazioni riguardanti lo sviluppo “sano” di un bambino, soprattutto nella lenta gestazione delle sue abilità psicosociali/cognitive: tante di queste abilità, il bambino le sviluppa impegnandosi in un’attività sincrona e basata sulla sintonizzazione emotiva con l’altro -attività come il gioco sociale.

- L’autore si chiede cosa produca un bombardamento mediatico operato su di un cervello malleabile come argilla negli anni cruciali, anni come quelli della preadolescenza, arrivando a parlare di un passaggio da un’“infanzia basata sul gioco” ad un’“infanzia basata sul telefono”.

- Haidt parla di una “riconfigurazione” vera e propria dell’infanzia, che attraverso il telefono sarebbe stata espropriata delle attività che evoluzionisticamente sarebbero state più importanti (come appunto il gioco sociale sincrono, la sintonizzazione affettiva, l’autoregolazione nel gruppo dei pari). Sottolinea a proposito di questo l’importanza del gioco “rischioso”, corporeo, citando diversi studiosi che lo approfondiscono (si veda per esempio questo studio): la natura del bambino è antifragile, necessita cioè di “perturbazione e stress” per evolvere

- Nel quarto capitolo l’autore apre il macro-capitolo “pubertà”, età particolarmente delicata in termini di “finestra di apprendimento” soprattutto a livello culturale/di conoscenza (si veda questo approfondimento su “La mente adolescente” di Daniel Siegel): qui pone il problema degli “inibitori di esperienze” (la cultura dell’iperprotezione che Haidt chiama safetyism e la dipendenza da smartphone), e riflette sull’assenza di riti di passaggio (almeno non nel mondo online, esente da questo tipo di logiche)

- Proseguendo nella lettura del libro, Haidt fa un veloce excursus storico a partire dal lancio del primo Iphone nel 2007, attraverso la creazione delle prime app (prima a pagamento, poi sostenibili a partire dalla pubblicità) fino ai giorni nostri; parla quindi del notorio “circuito di ricompensa e di come si possa sviluppare una dipendenza da smartphone, che ritiene “attivamente progettata” negli anni del lancio dei primi social network dai fondatori delle app stesse. Si trattava di ingenerare dipendenza nei ragazzini che avrebbero usato il social, obbligandoli a passare più tempo possibile sulle piattaforme. Ma come fare? Il meccanismo è quello della ricompensa “non garantita”. Così come avviene nel gioco d’azzardo, far seguire a una determinata azione una ricompensa sviluppa un apprendimento veicolato dal rilascio di una certa quantità di neurotrasmettitori: la ricompensa non dev’essere però garantita, per poter ingaggiare in modo più forte chi ne dovrebbe fruire -si evita così l’abituazione ad essa e il darla per “scontata- : il meccanismo è largamente studiato ed è appunto alla base del meccanismo che regge (e avvia) il disturbo da gioco d’azzardo patologico.

- In più, Haidt ragiona sull’elemento “attivo” inerente gli aspetti di rinforzo, ovvero la possibilità da parte dei fruitori di essere in prima persona coinvolti, essendo che l’oggetto del reward è la propria immagine, la rappresentazione sociale di sé. In questo modo, Haidt sostiene, si arriva a un passaggio fondamentale, la generazione di un meccanismo di aggancio basato non solo su trigger esterni (come la notifica, il suono che richiama l’utente al device), ma su trigger interni, “formulazioni mentali”, “call to action mentali” in grado di attivare il soggetto alla compulsione e di disturbare il normale flusso dei suoi pensieri; veri e propri “pensieri-trigger” sospinti alla coscienza dalla “fame” di rilascio neurotrasmettitoriale, come d’altronde accade in ogni dipendenza: “chissà se avrò ricevuto notifiche”, “devo assolutamente controllare”, etc.

- Correlazione? No, causa. Proseguendo nella lettura, Haidt propone con forza l’idea che i disturbi psicopatologici osservati a partire dalla finestra temporale 2010-2015, debbano essere attribuiti ai prima descritti cambi di abitudini a riguardo del rapporto con gli oggetti tecnologici. Mette insieme una mole impressionante di dati, che si possono recupare qui.

- Nella quarta parte del libro, Haidt seleziona e presenta ulteriori studi, a tratti assumendo un tono paternalistico, moralizzante: unici elementi degni di nota, la questione del maggior impatto dell’utilizzo dei device sulle ragazze, e il tema del distacco progressivo dagli ambienti naturali, alla cui frequentazione l’evoluzione ci avrebbe chiamati: a contatto con la natura, e in generale nella “realtà”, siamo esposti sia a dolore (un rifiuto “dal vivo”, un infortunio corporeo) che ad esperienze trasformative e positive, anche in senso spirituale (per mezzo di attività corali, fatte insieme, funzionali appunto al trascendere -come assistere ad un concerto dal vivo).

Che fare, dunque?
La seconda parte -più breve- del volume, è incentrata su quello che i governi, le scuole e i genitori dovrebbero fare per contrastare il processo di “riconfigurazione dell’infanzia” citato dall’autore. I capitoli che si susseguono in questa seconda parte, sono per lo più ripetizioni di due concetti fondamentali:

- è necessario rivedere e ripensare le norme (e anche le leggi) con cui permettiamo agli individui minorenni di accedere alle pagine internet. Il problema che l’autore pone in tutto il libro, viene anche qui riproposto: abbiamo concesso una libertà smisurata e non protetta alla navigazione su internet, e allo stesso tempo stiamo iper-proteggendo nel mondo reale i bambini e gli adolescenti, inabilitandoli alle esperienza di crescita fondamentali

- riprendendo il tema prima accennato, l’autore suggerisce di contrastare la tendenze al safetyism, all’iper-protezione, lavorando (pensando alle nuove generazioni) per la promozione di una maggiore connessione alla vita reale, offline

In conclusione, il volume come prima accennato rappresenta un’indagine -scritta in modo semplice, spesso ridondante- a riguardo degli impatti dell’utilizzo di smartphone e social media sulla salute mentale di ragazz* cresciuti nel periodo “critico” tra 2010 e 2015.
Le parti più interessanti del volume sono quelli inerenti gli studi a riguardo del potere dipendentogeno dei device tecnologici: non rivelano nulla di veramente nuovo, ma sistematizzano gli studi che negli ultimi anni sono stati pubblicati, fornendo prove convincenti a riguardo di una effettiva causalità tra l’immissione nel mercato dei suddetti strumenti tecnologici e il peggioramento della salute mentale delle generazioni che, in quegli anni, si stavano formando.

Declassare una valutazione approfondita come quella eseguita da Jonathan Haidt a “boomerismo”, “trombonaggine” o generico “luddismo”, equivale a non prendere seriamente in considerazione la questione, problematizzandola come è necessario fare. Giungere alla conclusione che “è sempre successo così”, che “ogni cambio di paradigma ha pro e contro”, rischia nuovamente di lasciare tutto così com’è, senza che nessuno faccia nulla nè per avallare, né per modificare/raddrizzare/intervenire sullo stato delle cose. Perchè inoltre -l’autore si chiede-, spostiamo sempre la questione su problemi “precedenti” che sarebbero la causa “prima”, originaria dei problemi di dipendenza dei ragazzi? Non possiamo intervenire su entrambi i momenti del problema, su tutti gli elementi in gioco di questo fenomeno, senza accanirci su “cosa venga prima” -domanda peraltro difficile, se non impossibile, da indagare? Tendenzialmente, abbiamo a che fare con una nuova, subdola e ormai endemica nuova forma di dipendenza comportamentale, rinforzata da meccanismi neurobiologici invincibili e inevitabili, soprattutto in chi ha il cervello in maturazione. La sensazione tuttavia è che, al momento, questa nuova forma di dipendenza non sia veramente problematizzata né pensata come tale: altre questioni sembrano sempre più attuali, forse perchè esiste un qualcosa da combattere attivamente, in senso fisico. Perché viene combattuta così ferocemente la cannabis legale, per fare un esempio, e ci si muove con lentezza da pachiderma nel normare l’accesso a siti dannosi per la salute mentale di individui in pieno sviluppo?

Nella parte finale di questo libro, Haidt osserva che sarebbe sufficiente ipotizzare l’intervento di aziende terze coinvolte al fine di controllare che i ragazzini che accedono a social o siti di pornografia siano effettivamente nell’età per farlo: non necessiteremmo di chissà quale tecnologia, sarebbe sufficiente un portale a cui autenticarsi con il proprio documento d’identità, che intercedesse per il soggetto stesso quando questi dovesse entrare in un determinato sito -garantendogli/le allo stesso tempo l’anonimato.

In ultima analisi, i limiti di questa indagine sono di ordine strettamente statistico: pur con questa enorme mole di dati, sembra difficile parlare di una causalità diretta: troppe variabili confondenti sporcano gli esperimenti, rendendo complicato tracciare una linea causale netta (per ora). É indubbio tuttavia che a un’osservazione attenta, gli effetti dell’utilizzo compulsivo di uno smartphone -con tutto quello che al suo interno vi si possa rintracciare- sono evidenti, almeno agli occhi di un operatore della salute mentale: vanno dal modellare l’architettura dell’attenzione, al “bucare” la forma del pensiero (i trigger interni di cui prima scrivevamo, pensieri intrusivi in grado di portare l’attenzione al device, obbligandoci compulsivamente a ritornare ad esso) fino ad alterare il circuito del reward ingenerando una dipendenza comportamentale “nascosta” -allo stato delle cose accettata socialmente, per nulla problematizzata.

Tornando e concludendo sul libro di Haidt, La generazione ansiosa rappresenta una fotografia di estrema attualità dello stato di salute mentale delle generazioni dei ragazzi nati a partire dalla seconda metà degli anni ‘90, con un focus sulle implicazioni dei profondi sconvolgimenti in campo tecnologico che a partire dagli anni ‘10 del 2000, si sono succeduti con impressionante velocità. Al centro della sua indagine, Haidt pone i rischi di una forma endemica di dipendenza comportamentale che attribuisce all’uso pervasivo di device tecnologici portatili, fornendo alcune indicazioni generiche su temi di “ecologia della mente”, aiutando il lettore a porsi in una relazione consapevole con questi strumenti tecnologici, finalmente e coraggiosamente problematizzando la questione.


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